Antonio Walter Tirrito

Le navigazioni di Ferrante

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4. Lunedì

 

Molti hanno descritto lo scoramento che si diffonde a bordo, quando si naviga al largo ed inabissa il cielo del crepuscolo, intorbidato di viola.

Forse il passo più celebre è quello dell'Alighieri, che parla dell'apprensione che coglie i naviganti quando la notte li avvolge entro la prigione di uno spazio ostile; in quello spazio ed in quel tempo la nostalgia degli affetti si acuisce bruscamente; i ripari solidi, imbevuti di sicurezze, diventano ruvide assenze. Il deserto d’acqua si oscura, il mondo noto e sicuro si restringe intorno allo scafo; le tenebre avviluppano tutto, il tremore dell’ignoto e la paura delle insidie si dilatano. L’oscurità è un gravame che piega (il cuore si intenerisce, dice il poeta). Cancellato il cielo celeste, o il profilo azzurro di un’isola lontana, visibili nel giorno luminoso, si viene rinchiusi dentro una tenebra dove pare covare ogni minaccia. La scomparsa della luce ha in se il definitivo inappellabile. Il navigante è accerchiato da un elemento estraneo e non amico, capace di agguati, di aggressività incontenibile. Il buio aumenta la potenza del mare; dentro l’oscurità pare espandersi la sua forza; diventa palpabile la sua capacità di spezzare le travi e le fragili navi e perdere i cuori che sono a bordo. Sgorga subdolo il pentimento per essersi affidati ad un dio onnipotente ed imprevedibile, che disperde la fiducia, soffoca la speranza, indebolisce la sicurezza nelle costruzioni degli uomini. É così fragile il minuscolo vascello nelle vastità che si espandono, che schiacciano quel guscio così inconsistente, così sperduto ...

Differenti sentimenti suscita il tempo dell’alba. Nella gente di guardia nel turno dell’alba, quello che chiamano turno di Diana, si attende che la notte impallidisca e si allontani. Si attendono luci dapprima timide, poi capaci di respingere le prepotenze delle tenebre in una rotta che diventi un crescendo di disfatta.

La guardia si volta con frequenza verso oriente. L’est giace sopra un orizzonte che talvolta, nelle notti senza luna, è invisibile; si consulta la bussola per avere la direzione del sorgere del sole: si fa riferimento a qualche parte della barca, e là si guarda. Quando la rotta non cambia, il punto dove inizierà la chiaria diventa il più osservato. Vi si immagina un che di più luminoso, vi si colloca una proiezione di speranza, più che l’apparire di barlumi di differente trasparenza nell’intensità del buio. Vi si occhieggia quasi di sfuggita, in un veloce movimento dello sguardo, quasi con scaramanzia, come se quel punto particolare della barca avesse in se una specie di sortilegio delicato, quasi un dio timido avesse là il suo nascondiglio, un dio che non pare opportuno irritare fissandolo con troppa insistenza.

A bordo si scambiano caute parole, si misurano i movimenti. C’è l’attesa di una magia, e insieme il timore che essa non si rinnovi; c’è l’ansia e la voglia di accelerare lo sbiancarsi del cielo. Come se le arie della notte si siano ispessite tanto che oramai non si riesce più a sopportarle; trapela un’apprensione irrazionale che il buio si sia ingoiato e abbia sterminato lo spazio. Urge un prepotente bisogno di arie limpide e la necessità di controllare che la luce esiste ancora, e con lei i colori e che gli orizzonti ed il cielo siano ancora al loro posto e che si insedi il probabile mondo di manufatti e di sicurezze.

La prima attenuazione dell'oscurità è una incertezza, una instabilità di colore, un nero di minor spessore, che sembra sbiadire con ritrosia. Forse l’ultima foschia ed il primo albore si confrontano così, con perplessità, dall’inizio del creato. L'occhio non percepisce lo spandersi insinuante, lo stingersi impercettibile, eppure ad oriente le tenebre sfumano in una fascia incerta che si ingrigia. Il mutamento è cauto; con pazienza nella guardia si fa strada la certezza che la luce, il giorno abbagliante del sole invitto sta ritornando, per riappropriarsi dello spazio. Ricorda che spesso il cambio del turno della guardia dell'alba avviene con un certo ritardo: come se gli ultimi guardiani della notte, quasi si considerassero privilegiati spettatori e ospiti di un palco di grande prestigio, non volessero rinunciare alla ricomparsa della luce sul mondo.

La luce dell'alba, la chiarìa prima indistinta, poi soffusa e da ultimo trionfante, ha una forte impronta di possesso; è l’amante che si riappropria del corpo amato e vi dilaga con avidità, con bramosia, con fermezza, tenero e deciso ad un tempo. L’amplesso si dilata, rotola per spazi sempre più vasti, sino a spandersi su tutto il mare ed il creato; come se non la rotazione planetaria, ma l'amore faccia riapparire il cielo, e permetta che lo spazio si assesti sopra gli orizzonti. Si svela tutto il mondo possibile; l’immaginario spazia sino a lontananze benefiche. La luce, la sua fisicità, assicurano che le cose esistono ancora; che gli affetti e la sicurezza possono essere riconsiderati.

Il tramonto istilla raccoglimento, intimità ansiose, tremori primitivi. L'alba e la sua luce sono infanzia prepotente, che suona trionfale su registri cosmici. Chi veglia è investito da una voglia di fare e un desiderio di azioni danza in una frenesia quasi ebbra con lo spandersi inarrestabile degli spazi Il ricostituirsi del mondo ricolloca nel laborioso mondo voluto dagli uomini. Una sorta di lievità accompagna l’installarsi progressivo di luci e di spazi sempre più vasti. In questo tempo sembra che la guardia dell’ultima notte bruci quantità notevoli di risorse fisiche: la vivacità sferzante dell’alba si allenta, sostituita da una stanchezza progressiva, che reclama la soffice orizzontalità della cuccetta, dove liberarsi del peso della notte e di quello dei corpi con un sospiro lungo.

Ora, nell’alba avanzata, sospira un cambio. Il corpo infreddolito e stanco, reclama un qualunque distendersi nell’abbraccio caldo del piumino, una cancellazione delle ore di navigazione della notte e del giorno prima. Ma la sua ospite dorme un sonno solido; per tutta l’oscurità il suo riposo non da segni di cedimento. Anche quando le sue intrusioni entro la cabina sono tanto rumorose da far reagire in modo vivace ogni persona abituata a navigare, la sua ospite continua il sonno e giace nella sua stagnazione minerale. Le persone che navigano sono di un genere strano, che si svegliano al minimo rumore e subito sono pronte per azioni dalle quali sembra non si siano mai assentate. Ma dove sono, ora, quei marinai, svegli al percepire il minimo cambio di fruscio in chiglia, che sentono le onde differenti sulla rotta? dove quelli che percepiscono un cambio di quarta, anche su un mare quieto? La sua ospite, forse per timore di essere chiamata al cambio o a qualche azione, non apre bocca, non muove ciglio. Per Ferrante, d'altronde, il sonno deve aspettare ancora due o tre ore: l'isola maggiore dell'arcipelago, dove è diretto, è uscita dalle foschie della notte ed ora occupa quasi tutto l'orizzonte di prua e vi si ammassa, sempre più concreta, sempre più larga.

È indeciso se svegliare la sua ospite o no, per le manovre dentro i moli. Rimanda la decisione e fa un punto per stimare quanto sia distante e che rotta debba tenere per l’ingresso al porto dove ha deciso di attraccare. In passato è già sbarcato qui; ricontrolla i dettagli dell'approdo nel portolano. Lo individua esattamente nelle corporeità sempre più definite dell'isola che gli viene incontro, in modo da dirigere con esattezza la prua sul suo ingresso, evitando di perdere tempo con bordeggi approssimati. Corregge l'autopilota e guarda lo strallo che si sposta piano lungo le masse azzurre dell’isola, sino a collocarsi sul promontorio che nasconde il molo e l'ingresso. Ora, dopo l'alba, il sonno lo agguanta spesso e la fatica gli pesa addosso più rude. Come tutte le attività, anche fare lo skipper può essere faticoso. A molti sembra bello e persino poetico. Ma questi guardano di rado dietro la medaglia. Dove è inciso che è un lavoro duro, a volte ingrato; sempre impegnativo, proprio come tutti i mestieri dove il comando è reale, o come la vita. Le persone vere ed i veri comandanti non frequentano i salotti, non hanno tempo e occasione di pavoneggiarsi nei circoli ufficiali e nei club. Certi pennaioli riescono a rendere un mestiere impegnativo persino indisponente, quando scrivono nelle loro prose pompose e vuote, quando lo raccontano nelle riviste di moda momentanea; si sa che pescatori e marinai hanno fantasie gagliarde, ma essi provano la pesca ed il mare; la maggior parte dei pennaioli è invece sprovvista persino dell’immaginazione capace di figurarsi le circostanze e la vita. Difficile, quasi impossibile, per costoro, immaginare che in mare, alle volte, il labile confine fra la riuscita di una crociera e il suo fallimento, oppure fra la salvezza di uomini e barca e la loro perdizione, non è costituito da fulminazioni romantiche, ma da un mestieraccio in cui si incrosta di tutto: dal sapere riparare il cesso al conoscere la tenuta di un nodo, dal calcolare una corrente e valutare il vento, allo svuotare a mano l’ultima melma di una sentina ...

Decide di non svegliare la sua ospite. Abbassa un poco la guardia e l’attenzione; mancano oltre due ore all’attracco; la rotta non ha insidie di scogli o di bassi fondali. Abbandonandosi a lievi assenze, in dormiveglia nervosi, riesce a trascinare attraverso le ore le ultime miglia di navigazione.

Scorge chiara la torretta del molo; le case, ancora piccole, diventano volumetrie nitide: è ora di avvolgere il fiocco e di avviare il motore. Ritocca l'autopilota e quando la prua s’impunta sul vento ammaina anche la randa, la serra, la imbroglia sul boma; va sulla prua, libera l'ancora dalla cubia e la manda a pennello. Entra nelle acque del porto; tese come lenzuola azzurre lacerate dall’increspatura del suo scafo; si lascia a poppa un'onda pigra che va a ciangottare con discrezione sulle altre carene. Il cielo nitido è una vibrazione e la luce smalta i colori degli scafi, delle case, degli alberi. Nei porti dell’alba c’è uno stupore deserto, quieto, in attesa.

La catena striscia sui metalli della cubia; alza un suono orrendo, una tagliente lacerazione nel silenzio. Salta leggero sul molo con una bozza in mano e l'affranca ad un anello; richiama la barca a se, vi risale e ala sulla sua bitta: a prua tende la catena sin che la vede uscire dritta dall'acqua; ora che la barca ha la poppa in banchina e che l'ancora agguanta con presa forte il fango del fondo, spegne il motore e soffia fuori un lungo sospiro.

Ad attracco completato la sua ospite si affaccia pesta dalla cabina, accusando dolenzie interne ed esterne. Nonostante il sonno solido, ha subito burrasche stanotte.. Non respira se non con grande difficoltà; i polmoni le bruciano; ha la febbre che la debilita ed una irritazione alla gola, come Ferrante può ben sentire dalla raucedine e dai colpi di tosse che arrivano immediatamente a corroborare la sua perorazione. Ah, certamente questa crociera è nata sotto cattiva stella, i segni zodiacali non erano favorevoli; con Saturno in recessione, avrebbe dovuto intuirlo subito, non si doveva intraprendere un viaggio; ed inoltre Giove non in trigono non predice niente di buono per quanto riguarda la salute. Ora gli chiede se c'è qualcosa che lei possa fare a bordo prima di andare da un medico appena saranno sbarcati.

Ma come? Sono già nel porto? Ma perché Ferrante non l'ha svegliata per farsi dare una mano? .... Per quanto malconcia l'avrebbe comunque aiutato ....

La malata non coglie niente del trionfo di luce nell’alba luminosa, del porto sonnolento, dei colori smaglianti di barche, case e acque riflettenti. "Tutti ci comportiamo così, quando forti ansie ci dilagano dentro .... ma quanti amano impelagarsi nell’autocompatimento anziché reagire, quanti prediligono lo scivolo, facile e comodo, alla salita, faticosa e dura?" commentava una situazione analoga, anche se più seria, un vecchio compagno d’armi.

Alla radice del molo c’è un bar aperto; vimini e cuscini sotto un pergolato orientato verso il porto e la torre. L’ospite e Ferrante siedono al riparo della luce, nella protezione di un’ombra già gradevole, ora che il sole comincia a scottare. Un caffè per Ferrante, un toast ed un cappuccio per l’ospite; ma che il cappuccio sia tiepido e non bollente, che abbia un po’ di cacao; e che il toast sia senza prosciutto, con due tipi di formaggio e con l’aggiunta di una salsa, che, fortunatamente, il barista ha; inoltre il pane deve essere rosato e non troppo cotto. Gli ordini della sua ospite sono perentori, definitivi, pur conditi di sorrisi e di per favore; precisano la sua assoluta autorità sul cameriere, perché è importante ribadire il proprio ruolo, ricordare i diritti di chi paga ed i doveri di chi serve. Con buona pace di tanta democrazia e di tante rivoluzioni, il censo e la casta, iniziati con l’età del bronzo, sembrano geneticamente inseriti in qualche meandro del DNA. Il timido cameriere e la sua ospite subiscono i condizionamenti e vi si adeguano. È incredibile quanto si impari, del cosiddetto buon vivere, frequentando una persona di gusti tanto raffinati, di tanto vasta esperienza di mondo, come la sua nobile malata.

La luce fresca dell’alba è maturata nel calore del giorno. L’orario si è vestito della decenza della consuetudine e quindi l’ospite può andare alla ricerca di un’amica che ha casa in questo paese d’isola, una volta quieto borgo polveroso ed ora brulicante di negozi. Scoperto dal turismo e sviluppato oltre le proprie possibilità, è abitato da bottegai e ristoratori: è un altro antico modo di vivere e di stare insieme che si snatura e viaggia verso un modo di vivere meno sacrificato. Vista la cura con cui si trucca e si veste, non si direbbe che l’ospite risenta molto della sua grave malattia: Ferrante non saprebbe dire se costei stia obbedendo ad un rituale abitudinario o tenti, imbellettandosi con cura, di reagire al suo malessere. Forse, condizionata dal benessere di una classe agiata da più generazioni, che hanno perso nel tempo la grinta dell'azione, l’ospite è più persona che ausculta ed amplifica i minimi moti di malessere che persona capace di sussulti istintivi di sopravvivenza. La osserva percorrere il molo, impettita come un ufficiale imbelle, splendidamente acconciato per la parata, nei circoli brillante espositore di strategie e tattiche, ma che è una piccola persona senza i suoi paludamenti. L’ospite si disperde nella folla: è la comparsa tragica, che affonda con tutti i suoi orpelli ma che continua, forse con sempre minor convinzione, a dire al mondo: "Mi degno di calcare questo palcoscenico. Ammirami, plebaglia!".

Nella barca accanto un gigante abbronzato esce dai portelloni della sala motori. Socchiude gli occhi nell’abbaglio di luce, ammicca e saluta. Cammina scalzo sulla coperta di teak del suo grande scafo d’altura, massiccio di legni e di spazi. Ha investito tutto su questa barca, con cui porta gruppi di turisti, inviati da una agenzia nordeuropea, in battute di pesca, in immersioni, in navigazioni lungo le coste dell’arcipelago, che conosce in ogni anfratto, baia e ridosso.

Prima di mezzodì aspetta l’hostess della compagnia turistica, che parla correntemente sia l'italiano che la lingua dei futuri ospiti. Con lei organizzerà il soggiorno della decina di persone che avrà a bordo. Ha già abbozzato il programma da sottoporle. Discuterà degli itinerari, delle curiosità storiche e geografiche dei luoghi che visiteranno, della cucina mediterranea che sarà servita a bordo o suggerita nei ristoranti a terra.

"Questo per l’estate, diciamo da giugno ad agosto. E durante l’inverno? E in primavera ed autunno? Come trascorri il tuo tempo. Questa attività estiva ti da di che vivere per tutto l’anno?"

Risponde che ha dei clienti che lo conoscono da tempo e lo chiamano anche in autunno ed in primavera per qualche battuta di pesca; altri lo contattano per stare in mare qualche ora, nelle brume dolci dei mari autunnali, sovente quieti e miti; altri amano subire il sortilegio blando che scaturisce dal vivere in questo differente ambiente, in questa instabile, intima abitazione di legni dondolanti. Qualcuno, più che cliente, è quasi un affine col quale si stabilisce un legame solido e affezioni profonde. Nella stagione fredda, quando il rigore del clima offusca le fantasie romantiche e le piccole velleità di fuga, allora nel suo guscio ferve un cantiere di piccoli interventi, di migliorie, di lavori più o meno impegnativi. Il gigante abbronzato è un fine meccanico, un provetto carpentiere, un mastro d’ascia raffinato: sa accarezzare la seta delle venature del mogano, lisciare le ghise perfette, battere il maglio maneggevole per calafatare i comenti. Nostalgie per la comoda attività manageriale che ha lasciato? Si, ci sono. Anzi, c’erano. Ma ora la sua attività è questa, la sua vita è qui. E poi troppe volte si cade nella trappola del rimpianto, che ti manipola e ti intristisce perché vorresti essere altrove e non qui; ti accorgi della manipolazione quando, essendo in un qualche altrove, provi lo stesso sottile rimpianto di non essere in un altro altrove. Nelle onde irrequiete ha trovato una verità ed una misura.

"Queste onde mediterranee, se le ascolti, ad ogni frangere dicono ... hic et nunc .... hic et nunc .... hic et nunc. In qualunque posto ti ponga la nascita e la sorte, in quel posto hai le stesse possibilità di felicità, di stima, di dolore e di guai. Forse non avrai le stesse possibilità di benessere e di ricchezza, che i limitati dal condizionamento credono indispensabili ed irrinunciabili; ma neanche queste supposte sicurezze ti scansano dalle traversie che spettano a tutti. É come se ognuno avesse in se la propria fonte di infelicità; e forse siamo più portati a credere nelle nostre infinite fonti del dolore che a credere nelle nostre possibilità della soddisfazione. Non so se ho fatto una buona scelta abbandonando la mia professione, ma chi mi convince che questa, che mi soddisfa, sia una scelta infelice? A me sta bene così. Riesco ad avere abbastanza preoccupazioni e abbastanza gioie, anche qui e con questa attività, come ne avrei avute se fossi rimasto a fare il capetto in qualche organizzazione o se fossi nato in qualche sperduto villaggio della savana. Mi basta poco per vivere, meno per morire."

Sotto le tese delle tende, tremanti ogni tanto sotto refoli più energici di brezza, passano i bicchieri da un bordo all’altro e le parole si distendono nell’ombra. Il sole inalberato sulla verticale barbaglia sulle acque del porto un palpito infinito di luci. La torre sulla poppa si leva silenziosa, essenziale nello smalto azzurro, sfrecciata dallo stridore dei rondoni, saette e schizzi neri, più veloci dello sguardo, repentini su uno scenario immobile. Esitando, una donna con una grande sacca guarda verso la barca del gigante. Che se ne accorge, lascia Ferrante e raggiunge la poppa. La donna bruna, con vesti leggere che non celano la bella struttura del corpo, parla la lingua del gigante con inflessioni nordiche, gradevoli. La sacca viene imbarcata, lei scivola leggera sulla passerella e stringe la mano del suo ospite. Brevi presentazioni, poi i due scompaiono nelle penombre del quadrato. Il chiacchierio si allontana. All’interno del guscio, fra presentazioni di cabine e locali e commenti, inizia, sempre solito e sempre nuovo, il gioco sottile della seduzione. Che è iniziato alla prima occhiata, sulla banchina assolata.

Ferrante si cala in quadrato. Ripone la bottiglia, sciacqua i bicchieri e li impila nella rastrelliera. Sul getto d’argento dell’acqua, sul contrasto fra mogano e trasparenze del vetro, si domanda che cosa renda tanto estenuante e tanto coinvolgente la seduzione. E quante seduzioni si ricordano? E quanti baci e quanti amplessi? Poco resta in lucida memoria di momenti tanto implicanti. Come se quelle venture siano un affacciarsi su infiniti che non è possibile raccontare e ricordare; e l’essere allacciati in questi coinvolgimenti totali, cancelli alcune capacità della memoria, attenui in qualche modo la coscienza, menomi l’attenzione. Si subiscono seduzioni, seduzioni si perseguono: ma se ne ricordano pochi dettagli. Qualche sprazzo, qualche particolare, qualche elemento: ma nessuna di queste parti fa rivivere quelle trepidazioni, restaura quello sconvolgimento. Anche i particolari che si ricordano devono essere richiamati forzatamente alla memoria, ricostruiti con attenzione, e con freddezza .... quello che si riesce a ricomporre sono vaghe sensazioni di smarrimenti, sfumati particolari di accadimenti minimi... La prima seduzione cosa ha di differente dalla quarta? E qual è stata la sesta seduzione? E il centesimo amplesso? Di mille baci, quanti se ne ricordano? E cos’è quel balbettio, quella frenesia, quella febbre sul seno morbido, sul pube ricciuto, sul collo abbandonato in un singulto? Di quella volta nell’oro di un campo di grano, nel sole che accarezza la schiena, nelle ombre nette dei corpi e dei sessi intrecciati, si ricorda il grano, il sole... ma è scomparsa la nitida risonanza della pulsione profonda, dello smarrimento, del naufragio.

 

In una crociera qualcuno affermava che il dolore sembra più potente della gioia, ma non ha voce più alta.... e che nei paesi dove il sole tramonta ha più potenza il dolore.

"Dall’oriente gli occidentali si aspettano, per tradizione, le buone novelle. É da oriente, dalla mezzaluna fertile ed oltre, che si muovono verso occidente le parvenze di verità, più o meno rivelate, più o meno ricercate. Ma è l’occidente che per migliaia di anni si è trasformato. L’oriente, nel letargo di un ozio apparente, in uno stato quieto dell’anima, pensa le soluzioni universali. L’occidente, nei millenni, si agita irrequieto e opera. Non so quale parte del mondo e dell’uomo sia meglio .... Io sono condizionato a vivere in occidente e mi sembra preferibile questa soluzione, anche se pesante di malessere, costellata di vincoli artificiosi. Mi sembra degno di meditazione il paradosso, che forse è una semplificazione ed anche un’apparenza, che fa convivere i sogni dell’oriente e la concretezza dell’occidente."

Ferrante ha frequentato senza molta regolarità alcune scuole esclusive e ampollose, di idee limitate, esenti di creatività, solidamente ancorate sul possesso. Fra i banchi di durezza ingannevole, che dovrebbero simulare la vita ed il suo apprendimento, è uscito monco di conoscenze e con idee ristrette. Più tardi si convince che ogni posto ed ogni epoca soffrono di un provincialismo innato e di chiusure congenite. Alla generazione in cui è cresciuto tocca il compito di rifare stati sfasciati da ideologie e da guerre. Capitalismo, comunismo, religioni, nazionalismo, anche se alle volte diventano alleati momentanei, restano blocchi contrapposti, isole in guerra. Nelle arene di brevi stagioni questi protagonisti si fronteggiano, diffidano, si aggrediscono: sovente osservi lo spettacolo pietoso di un contendente più pauroso dell’altro. Ma l’aria nel frattempo si impregna di intolleranza. Talvolta si impone, in brevi altalene di poco tempo, colui che possiede l’abilità più depravata e più sottile di deformare i fatti e le idee. La comunicazione viene utilizzata per rendere l’antagonismo sempre più marcato. La diversità e la differenza diventano perversione e malvagità. Quando il fanatismo dei potentati temporanei predica e sposa l’intransigenza e l’assolutismo, sono cancellate la relatività delle ideologie ed il buono di ognuna.

A bordo, nelle notti piene di stelle e di dondolii lievi di risacca, illanguiditi dal cibo e dai liquori, nell’artificiosa semplificazione di esistenza che la barca suggerisce e propone, i pensieri volano alti. Libere associazioni scoperchiano facili soluzioni; si librano vapori, vagola un benessere di intuizioni, una felicità ovattata. Su un equipaggio che giace appagato, scandendo piano le parole, ricercate dentro le sensazioni, qualcuno afferma: "Simile beatitudine hanno gli uomini-dei di Fidia, serenamente distesi nell’equilibrio ombroso dei frontoni. Essi guardano da millenni, da un Olimpo di anima, le ansie e le febbri che sconvolgono i piccoli uomini, le cui generazioni inutilmente affannose si infrangono ai piedi delle colonne doriche, indifferenti e solenni; forse le contemplano con lo stesso sguardo con cui noi guardiamo, distrattamente e con il cuore attutito, le onde che si ripetono schiumando sulla battigia immutabile."

La sua ospite torna nel pomeriggio. La vede arrivare da lontano con falcate atletiche sino alla passerella. Prima di salire a bordo, quasi improvvisamente colpita da naufobia, tossisce e si aggronda. Si trascina a bordo e comunica a Ferrante che la sua amica la ospiterà nella sua abitazione da domani e sino a dopodomani, quando partirà il prossimo traghetto dell’alba. Parla a fatica. Respira quasi affannosamente. Seduta, affranta, prega Ferrante di estrarre dalla cala le sue borse. Ferrante chiede se può aiutarla a rifare i bagagli. Risponde che preferisce fare da se. Magari una volta pronte le sacche, potrebbe darle una mano per lo sbarco. Intanto Ferrante può andare al bar perché vuole fare le cose con calma ed ordine. Passerà lei a chiamarlo, quando le sacche saranno pronte per lo sbarco.

Seduto su una comoda poltrona di vimini, Ferrante si chiede se sia opportuno tornare al punto di partenza o continuare la crociera. L’alta pressione è stabile e forse rimarrà tale per una settimana. A bordo ha provviste sufficienti per molti giorni. Decide di proseguire. E, magari, troverà qui delle persone da imbarcare, che completino l’equipaggio e rendano persino profittevole la crociera.

In un negozio acquista pennarelli e cartone e scrive, a grandi lettere, l’offerta di imbarco e l’itinerario degli scali nelle isole.

Appena terminato il cartello è raggiunto dall’ospite, che telefona per un taxi. Ferrante le mostra il cartello: se troverà qualche sostituto, le rimborserà la crociera. In caso contrario, a termini di contratto, non rifonderà nulla.

L’ospite è indispettita. L’arrivo del taxi lo salva dalle proteste. In pochi minuti le sue sacche sono sbarcate e infilate parte nel bagagliaio e parte nell’abitacolo. La vettura si allontana e Ferrante risale a bordo. Fissa il cartello sul belvedere e annota le variazioni sul giornale di bordo.

Nei giorni lunghi dell’estate, il tempo sembra allargarsi, e mai cessa la luce sconfinata. Dopo i piccoli tramestii delle partenze delle barche al mattino, il porto si assopisce per tutto il giorno. La sua deriva sonnolenta si inquieta verso sera, quando nuovo naviglio arriva dall’orizzonte e manovra imprigionato nelle acque scarse che i moli proteggono. Il tempo dilatato delle giornate estive, la sua luce infinita, stazionano decisi sulle cose e sull’anima. Distratto da un’ombra, Ferrante solleva lo sguardo dal candore della pagina. Sul molo un uomo sta guardando la barca e poi gli sorride. Un cenno. Un invito e sale a bordo. Stava ammirando il legno e si chiedeva chi avesse disegnato lo scafo e quale cantiere l’avesse realizzato. Parla con molta competenza di legni e di essenze, di caratteristiche e di linee, di stellature e di coefficienti prismatici. Nella calura estiva, vino freddo sotto la tenda che vibra nelle brezze di mare, azzurre, dolci fra la luce cruda. L’ospite è un collezionista di naviglio d’epoca. Recupera in tutto il mondo scafi blasonati, li fa portare in un suo cantiere di quest’isola. Qui mastri d’ascia di nuova generazione, con una solida preparazione di scuola e di mestiere, li studiano, li spogliano, li curano con precisa attenzione e li restaurano con rifiniture diligenti. Come nuovi creatori o come demiurghi ripetitivi. Ferrante li vedrà, un giorno, i motoscafi allestiti da cantieri leggendari, a triplo fasciame, i bronzi lucidi, i legni splendenti di vernici, le linee aggraziate obbedienti alla velocità come ad un istinto. Ma questa è un’altra storia. Per ora vede il suo ospite lasciare gli impegni, correre agli aeroporti, raggiungere paesi, dirigersi verso porti e cantieri mai immaginati, scoprire vecchi relitti, ascoltare le ispirazioni del passato. Mormorii e suggerimenti che emanano dalle polveri che il tempo ha accumulato fra la desolazione dell’abbandono.

Mentre racconta, due bimbe dalla banchina chiamano con un "Papà" l’ospite. Egli le guarda affettuosamente, con voce quieta parla con loro, augura buona passeggiata alla tata che le accompagnerà sul lungomare. Per un poco segue il loro avviarsi verso il paese, che leva il suo campanile sopra le case verticali, ammassate sulla curva della baia.

Poi resta come sospeso nel suo sorriso e cita: "I cari figli, una bella moglie, un oggetto prezioso ed antico cui sei affezionato da sempre, la ricchezza e la fortuna .... niente di questo mi appartiene. Sto soltanto amministrando il tutto al meglio delle mie possibilità. Ma senza il viscerale possesso di cui erano ammalati i miei predecessori. ... Vi sono due persone: uno è schiavo e zoppo, l’altro è un imperatore, di forte dovere. Sembrano due opposti destinati a non avere niente in comune. Eppure, quasi per uno scherzo della storia, l’oscuro ed ignoto schiavo è il padrone del celebrato e potente imperatore: è infatti lo schiavo che fornisce il pensiero e la guida all’uomo celebrato e potente. L'imperatore ha una magnificenza spirituale sconosciuta alle migliaia di caporali boriosi, che lo precedono o lo seguono nelle pieghe della favola che chiamiamo storia."

Ferrante non sa se sia il vino freddo o la stagnazione di tempo o questa luce estiva affacciata nelle profondità dell'aria, ad aprire il suo ospite.

"Una volta questa mia considerazione è stata tacciata di rassegnazione. In altra occasione di mediocrità. Quanti giudici disinvolti si incontrano, naufraghi come tutti negli ondivaghi umori dell’esistenza. Personalmente sono convinto che il pensiero dello schiavo e dell’imperatore siano una buona verità. Nascita, vita e morte accomunano tutti gli uomini. Tutti visitiamo i paesi del pianto e della sfortuna. Durante il viaggio, dentro l’esperienza che chiamiamo vita, troviamo radicati certi valori che vorrebbero misurare non si sa bene cosa, forse la felicità o la credulità della felicità, forse la tranquillità o la sicurezza. Ora questi valori sono la ricchezza, il potere, o la bellezza, la gioventù, la celebrità. Se uno possiede uno o alcuni di questi valori, quello è reputato persona degna di invidia. E questa credenza è tanto diffusa da sembrare una specie di religione universale, di fede indiscutibile e di verità lampante. Pochi la mettono in dubbio; se lo fanno sono guardati con sospetto di eresia. È ritenuto infatti rischioso, e sconveniente, demolire gli inganni e mostrare i maneggi delle eminenze, che su quelle illusioni e su quei sogni fondano sia la loro relativa e temporanea convinzione che il proprio potere."

Le osservazioni dell’ospite provengono dalle lontananze dei tempi classici. Le sue interpretazioni della vita venivano proposte, con altra lingua ma con gli stessi concetti, nei portici di Atene e nei convivi di qualche famiglia radical-chic della Roma repubblicana.

"In Atene i filosofi dibattevano pubblicamente le proprie teorie. A Roma la filosofia era quasi contrabbandata, discussa in piccole isole annegate in mezzo ad una classe oculatamente attaccata ai propri interessi, la cui miopia del guadagno avrebbe naufragato uno dei tanti tentativi di accomunare, in una sola grande collettività, popoli di differenti religioni e costumi. Si potrebbe ironizzare che, allora, la realizzazione di una comunità mondiale è stata vanificata dalla miopia di alcuni possidenti. A duemila anni l’ostacolo è la medesima pletora di piccoli potentati, altrettanto miopi, incapaci di volare, legati allo statu quo e che difendono puntigliosamente la propria piccineria. Allora la situazione era svantaggiata dalle distanze e dalle comunicazioni; ora, eliminati quegli impedimenti fisici, è complicata dal sopravvenire di un fanatismo di razze e di fedi, che sono, sì, asservite agli interessi di quelle minuscole, temporanee influenze, ma che riescono a disorientare le aspettative di un bene superiore. In duemila anni abbiamo sviluppato una forte tecnologia. Ma abbiamo anche imparato ad essere sempre più intolleranti e a diffidare dalla fratellanza umana."

Il solleone è attenuato dalle brezze che dal mare vanno a soffiare sui boschi. Sottovento all’isola i profumi di macchia e di resina arriveranno ad avvolgere qualche veliero che scia la sua rotta. Sulla banchina del molo una donna spinge la sedia di una invalida. L’invalida ha un volto sereno, incredibile fra le tante facce aggrottate che si muovono lungo il molo. Saluta l’ospite di Ferrante. Aiutata a scendere dalla sedia viene adagiata sulla passerella che percorre spingendosi con le braccia sino a bordo. Qui viene rialzata e rimessa su una sedia. Il volto dell’invalida è sempre rimasto sereno: un’acqua liscia, senza increspature.

"É ospite mia e della mia famiglia a bordo. .... Accadono incidenti che cambiano l’esistenza. É ed era una donna bellissima, di profonda cultura: un animo aristocratico, di pronta intelligenza. Attenta e sensibile. La vettura ci è uscita di strada: io non ho avuto un graffio. Ma lei resterà così sino alla morte. Dopo la disgrazia si sono dileguati molti amici. Altri sono stati da lei scartati; altri allontanati per non restare invischiata nella bava della pietà. Non ricordo quale miscellanea di sentimenti provassi nei suoi confronti prima dell’incidente. Era amica, amante, segretaria: discrezione, puntualità, generosità, acume di giudizio ... erano alcune sue caratteristiche. Ricordo attriti e litigi di feroce intensità. Ricordo i viaggi insieme e le notti insonni, i velluti fiammanti del desiderio e gli incanti delle invenzioni, le lievi follie degli appagamenti ed il profumo dell’abbraccio. La paralisi non ha cancellato il suo spirito né la sua intelligenza. É forte e dolce. Il mio matrimonio, la mia famiglia le danno serenità; o forse è lei a darla a noi. Ora ha il tempo che prima le mancava. Le ore per leggere e per meditare. La trovo talvolta pensierosa, ma mai cupa o intristita. La sua immobilità le ha regalato uno spessore intellettuale e una superiorità morale difficili da trovare nelle persone sane. Lei conosceva l’umanità dello stoicismo e mi citava Epitteto anche prima dell’incidente. Quando ha saputo che non avrebbe più camminato, che il suo futuro sarebbe stato una sedia a rotelle, mi ha detto con serenità che le persone che meditano possono dire verità umane più profonde di quelle che i fanatici di sfrenata fantasia fanno pronunciare alle proprie illusioni divine."

Il tempo è una corrente di luce lenta sopra l’isola. Gli scafi dondolano indolenti sugli ormeggi. I sogni impigriscono nel meriggiare. Il vino fresco infrange le piccole difese del conformismo e parlare diventa seducente.

"Essa è convinta che l’esistenza è un andare dove non si arriva mai. Ritiene che, tolti i momenti di solida certezza, come la nascita, la morte, il dolore e la piccola dose di felicità che spettano ad ognuno, gli obiettivi di qualunque persona, siano essi la carriera, o la formazione di una propria famiglia o la fondazione di un impero o di una religione, siano non valori, paccottiglia che non influisce sulla corsa del più modesto elettrone. La corsa del più modesto degli elettroni è più eterna di qualunque creazione e aspirazione dell’uomo. Quel movimento è nato prima dell’uomo e della vita; e continuerà immutabile anche quando sarà scomparso l’uomo. Indifferente all’uomo e quasi eterno in confronto alla durata della vita umana. Come se l’elettrone, e le cose, insegnassero che l’eternità ruota solo intorno a se stessa. E che ogni andare è un inganno: è l’illusione e la speranza di scoprire qualcosa di nuovo: e questa ricerca del qualcosa di nuovo e risolutivo, questa ricerca della chiave dell’esistenza, anziché approssimarsi si allontana; nel corso dei secoli scade a livelli e valori sempre più infimi. Nei tempi antichi si cercava la spiegazione del cosmo, poi la modesta pietra filosofale, ora un piccolo sotterfugio che arricchisca nel breve termine. Forse la ricerca del nuovo e del risolutivo è allontanamento dai valori assoluti. Una progressiva estraniazione."

L’ospite sorseggia. Raccoglie con uno sguardo la luce azzurra, i colori del porto, il digradare verde delle colline. Qualcosa che vede lo diverte perché un sorriso velato gli sfiora il volto.

"Una volta l’ho sorpresa in un momento di assenza davanti ad un tramonto. Il mare viola, l’orizzonte una fiamma. Le ho chiesto su cosa stesse meditando. Mi ha risposto che stava ascoltando il respiro del mare e quanto fosse solenne; e dopo ha aggiunto che non riusciva sempre a sentirsi degna dell’insegnamento delle onde. E che talvolta non riusciva a capirle. Anche se le loro pause rombavano fortemente sulla soglia della comprensione. Come avvertimenti; o allarmi. Oppure come urgenze."

L’ospite invita Ferrante a cenare insieme. Più che cena è un pasto serale, di tanti assaggi ed una spaghettata. Il tempo scelto dalla moglie del suo anfitrione è quello che si inoltra verso il tramonto.

"Godiamo la luce, prima che ci lasci. Ozieremo dopo, nella sera tiepida, chiacchierando." decide la moglie del suo ospite.

Una coppia di orientali serve con grazia imperturbabile tutti gli ospiti raccolti sul ponte, o disseminati sul frangiflutti o sugli scogli prossimi alla poppa.

A bordo dal suo ospite, Ferrante trova una suocera. E la suocera del suo ospite è effervescente e sbrigativa come un capitano d’industria. Con piglio sicuro e con garbo rabbercia e risolve qualche carenza che l’improvvisazione di un pasto allargato ha provocato. É da tempo che Ferrante non sente più parlare di una suocera. Eppure, sino a qualche tempo fa, questa era una delle più bistrattate figure dell’umorismo. Una di quelle figure e di quei ruoli che la società promuove e poi, nella sua evoluzione, mette da parte. Ferrante ricorda che nella sua infanzia il ruolo ed il peso della figura degli zii e dei parenti erano elementi importanti. Ora paiono tramontate le costellazioni che offrivano valore a figure come i nonni, gli zii, le suocere ... L’occidente, in breve tempo, sembra abbia imboccato una strada diversa da quella della tribù, prima, e della famiglia allargata poi. Eppure solo qualche anno fa, in un porto d’oriente battuto da un meltemi violento, mentre si intratteneva con un ospite a pranzo, Ferrante ha visto una fanciulla salutare timorosa quel suo ospite; poi, ad un cenno di questi, venire a inchinarsi, a baciargli la mano, a portarsela al petto ed alla fronte. Il meltemi infuriava sotto un sole limpido, gonfiava le vesti, vibrava sulle sartie, scuoteva le alberature delle barche nel porto: ma quell’inchino e quel bacio sembravano solennità ferme nello spazio e nel vento.

La barca del suo ospite e sua moglie hanno lo stesso nome. Ferrante osserva il profilo bello della signora parlare affettuosamente con il profilo di cammeo della sua ospite inferma. Non c’è rivalità fra le due donne. Dal reciproco atteggiamento traspare affetto e stima. Ferrante non saprebbe dire se quelle due amanti dello stesso uomo si siano mai sentite rivali. Il loro atteggiamento pare basato su un profondo rispetto. Vi sono persone che riescono a fabbricarsi una propria verità che le traghetta verso maturità e saggezza; altre alle quali maturità e saggezza resteranno mete sconosciute e inimmaginabili, perché non hanno capacità di costruirsi una propria alta verità: queste sono prede destinate a qualunque promessa salvifica che condisca loro una qualche verità confezionata e collaudata.

"Non si può ridurre la vita ad una eterna competizione. Non avresti mai riposo. Mai una quiete, mai una contemplazione compiaciuta, anche di pochi attimi. Quando mai si vede uno di questi competitori, sempre trafelati, in corsa verso obiettivi da raggiungere, per poi rincorrerne altri posti più in là, fermarsi un attimo per assaporare qualche briciola di soddisfazione? Una sosta contemplativa, una meditazione serena, renderebbero penosa la ripresa della corsa. Chi sposa una vita trafelata, anche se tocca qualche successo pare avere tanti rimpianti, anche se di diversa natura, quanti chi, piagato dalle calamità, si rincresce e si autocommisera. Forse l’iperattivo teme che un attimo di sosta, una pausa di meditazione, gli porti sotto gli occhi la consapevolezza di quanto sia superficiale il placebo della competizione .... e con cosa sostituisci un argine, quando si schianta? ... Il cedimento di un valore portante dell’esistenza può sfociare sia nella maturità e nella saggezza che nella follia e nella violenza. O nella disperazione. O in una sordida rassegnazione, quando non si innesca alcuna ricerca."

Ovale perfetto come si può vedere nei canoni attici, l’ospite paralizzata scandisce nitide affermazioni fra pause non di effetto, ma di sospensione, come se misurasse, col calibro di una sua armonia, il concetto che vuole esprimere. Si rinnova, nell’ozioso chiacchierare a bordo dopo i pasti, la piccola umana ricerca dei grandi perché. Ci si ricade sempre, vuoi per il dondolio placido, vuoi per la trasfigurazione che hanno le cose nei deserti e sul mare. Forse un benessere dovuto al cibo, al vino, all’ambiente, alla strana, momentanea fratellanza che il mare a volte favorisce. Ma è euforia diversa dal vino, è benessere differente dall’appagamento del ventre. Da una più serena disciplina del cuore e dell’intelletto escono a volte minimi concetti, piccoli barlumi di verità, elementi modesti di soluzione, capaci di insediarsi inavvertiti, e che poi, magari, sanno lievitare con discrezione abbastanza caparbia e scaturire proprie certezze. Queste certezze sono vestite di una loro modestia: non amano paludarsi degli splendori granitici che hanno le certezze rivelate direttamente da divinità di levatura semitica. Sono piccole certezze umane, di umile onestà. Le verità umane sono modeste ed intime. Profonde. Quelle rivelate si vestono di roboanti rituali. E sono di volgare superficialità.

"Pare che si possa dire che le regole di base della convivenza civile, nel mondo classico, siano state fatte da uomini. Uomini che godevano di umano e non divino prestigio. Pochi di costoro (Licurgo, se ricordo, e qualche re di Roma) ha ritenuto opportuno scomodare le divinità per dare autorità e valore a regole umane e comprensibili dalla ragione umana. Non esistono notizie che si sia verificato qualcosa di plateale e pacchiano come nella rivelazione, di biblica memoria, delle tavole della legge. Quando ricorrono a questi espedienti, i capipopolo hanno a che fare con una turba di soggetti molto vicini all’animalità ed all’ignoranza. Oscure minacce vengono fatte pronunciare da tiranniche divinità capaci di spaventare animi pavidi ed infantili. Ed ogni calamità naturale si trasforma artatamente in una punizione per un oltraggio fatto a quel terrifico fantasma divino. Non esistono, nella storia, figure tanto nefande come gli uomini della provvidenza ed i profeti: secondo loro le calamità sono provocate dall’infrazione di patti stretti con le fantastiche divinità. Essi responsabilizzano o qualcuno, o una classe, di tutte disgrazie. Questi invasati distorcono le cause complesse, semplificano e tacciono le colpe e le carenze della classe con cui intrecciano alleanze. .... Non avete in mente qualcuno ..... ?" provoca dalla sua sedia l’inferma, il volto sereno.

E più tardi propone un suo piccolo monologo. "A volte quella specie di armonia che stabiliamo con il creato e la realtà si incrina ed affiorano i profondi egoismi individuali. Allora la delusione per la propria vita, i rimpianti per i fallimenti ed ogni specie di rimorso, insomma tutto quanto può nuocere, si alleano e devastano l’anima. Uno dimentica di vivere. La vita .... come la rosa più bella, colpevolmente trascurata. Di queste depressioni si deve avere rimorso e rimpianto. Non dell’inutilità della propria esistenza. Non esiste un atomo inutile, o più misero di altri. È solo il condizionamento umano che ci inganna nel giudicare; questo presuntuoso giudizio che cataloga cosa sia importante e cosa no. Ma giudica secondo un metro arbitrario, ottuso e presuntuoso. L’autocommiserazione è il suicidio più crudele; è il più spregevole dei beni, e ne facciamo largo consumo, nei momenti di depressione."

Molto tardi Ferrante raggiunge la barca. La sua ospite dorme. Si distende in cuccetta. Il porto è silenzioso. Gli scafi muovono appena. L’ultima cosa che vede è la falce nitida della luna, che dondola nell’oblò.

"Ciao, luna. A domani, mondo."

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